Il piccolo biposto mi precipitò davanti mentre passeggiavo in una stradina di campagna. Restai immobile, paralizzato dall'imprevedibilità dell'evento. Se un rabbino mi fosse saltato fuori dalla tasca ballando la salsa non ci avrei nemmeno fatto caso. Cioè, non lo so, forse se avesse indossato un tanga sì. Comunque pensai: “Adesso l'aereo prende fuoco come nei film, adesso l'aereo prende fuoco come nei film.” Non prese fuoco e per un attimo fui combattuto tra il desiderio di salvare i passeggeri e quello di possedere un lanciafiamme; sentivo di dover ristabilire l'ordine naturale degli eventi. Qualcosa però si mosse all'interno della cabina di pilotaggio. Il portello prese a vibrare, poi qualcuno o qualcosa dall'interno lo spinse con una forza incredibile e lo spalancò facendo un gran baccano. Fu allora che li vidi uscire. Non potevo credere ai miei occhi. Un attimo prima di perdere i sensi mi feci la pipì addosso.

Non svenivo da due anni ormai. L'ultima volta era stato quando mi beccarono in quel vecchio seminterrato in periferia, strafatto. Quella volta mi risvegliai in un'autoambulanza, mia madre mi teneva la mano. Ricordo che mi fissò con gli occhi lucidi e mi fece segno di non parlare, di conservare le energie. Le dissi con un filo di voce: “No mamma, devo raccontarti quello che è successo lì sotto, non posso rischiare che vada perso.” Lei annuì e una lacrima seguì il percorso della sua ruga più bella. Le raccontai tutto. Fu allora che mi disse qualcosa che non dimenticherò mai.
Il giorno dopo il medico si avvicinò al mio letto con il risultato delle analisi del sangue. Il suo sorriso, che tanto odiavo, era svanito. “Non si tratta di eroina” disse. Mio padre si alzò di scatto dalla sedia e urlò qualcosa. La camera prese a distorcersi come se il pavimento fosse diventato bollente e l'aria salisse molle verso il soffitto. Quando il medico finì di parlare eravamo così sconcertati che il tempo sembrò scomparire.

La mia mente iniziò a vagare e si fermò ai miei diciannove anni. Mi comparve ancora una volta la scena del rettore dell'università che mi chiama in preda al panico e dice: “Quello che hai fatto è qualcosa che non è mai accaduto in un istituto scolastico e chiaramente non accadrà mai più. Verrai radiato da questa università e da qualunque altra al mondo, ma prima che la polizia arrivi voglio farti una domanda, una domanda che altrimenti mi tormenterà per anni: perché l'hai fatto? E perché ne hai usati tre, tutti insieme?” Alla fine lo feci; gli mostrai la fotografia che avevo in tasca. Sembrò perdere il fiato per un secondo, poi finalmente capì anche lui. Raggiunse piano la finestra, la aprì, fece un gran respiro e saltò.

Poi richiuse la finestra, prese un foglio bianco dalla scrivania e scrisse: “Perché non racconti mai come vanno a finire le tue storie?”
Sorrisi. Tirai a me il foglio e scrissi lentamente “SARANNO”. Più sotto, con la mia migliore grafia, aggiunsi “PURE”. In quell'istante la polizia sfondò la porta. La matita mi saltò via dalla mano, roteò un paio di volte in aria e finì nell'ultimo posto che un uomo sano di mente potrebbe immaginare.