Prefazione

Mi piace come mi stanno le camicie, per questo ne sfoggio sempre una anche in pieno inverno. Essendo freddoloso, però, sotto la camicia indosso una maglia pesante. In pratica, mentre tutto il mondo indossa un maglione sopra la camicia, io lo indosso sotto. Sei mesi fa iniziai a chiedermi quando è nato questo bisogno nell’umanità. Qual è stato il momento esatto in cui qualcuno ha capito che poteva usare il suo cervello per migliorare l’aspetto di qualcosa, e qual è stato il momento esatto in cui qualcun altro ha fatto una scelta consapevole basandosi sulla bellezza? Qual è l’anello mancante tra un sasso e Zoolander?

Procedendo con metodo scientifico cercai la parola “Bellezza” su Google (non ho un vocabolario). Il primo risultato era il video della canzone Bellezza, incanto e nostalgia di Alessandra Amoroso. Il testo iniziava con:

Di quei cento giorni ancora mi ricorderò

che nonostante il mal di testa stavo lì

e rispecchiava le emozioni provate nei primi secondi di ascolto.

Una nuova ricerca senza l’autocompletamento di Google mi restituì la pagina Bellezza di Wikipedia che rappresentava di sicuro un risultato più pertinente, ma iniziava con “Disambiguazione”, una parola che trovo brutta.

Altri tentativi di approfondimento mi portarono alla quarta di copertina del saggio di Stefano Zecchi, “La bellezza”:

Proscritta come imbarazzante anticaglia dal sussiego postmodernista, ha poi riguadagnato terreno nella vita quotidiana attraverso un’idea artefatta di naturalezza e il culto della prestanza corporea, che promette a chiunque una facile elusione del proprio “ricettacolo di fango”.

Iniziai a farmi un’idea: forse la bellezza era nelle parole desuete.

Iniziai a farmi anche un’altra idea: era impossibile imparare qualcosa sulla bellezza evitando di essere sommerso da emozioni negative, di sviscerare Platone e Plotino, Aristotele e Kant, formulette matematiche, trattati di Umberto Eco, antiche cerimonie del té in cui un certo Kakuzo ti spinge ad amare pezzi di legno in putrefazione.

Allora spensi il computer e mi guardai intorno. Immaginai mia nonna che versava dell’acqua calda in una montagnetta di farina e diceva: “La bellezza è solo una percezione, non una cosa reale, e chi ha inventato la bellezza ha solo scoperto come provocare sensazioni positive negli altri.” Poi sorrideva alla mia faccia triste e aggiungeva: “Non è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace.”

Ero sul punto di abbandonare tutto, quando mi venne un’idea: il metodo più semplice per parlare della bellezza è scrivere un libro, un libro qualsiasi, e chiamarlo Libro bello. Se ti piace quello che leggi, allora il titolo è giusto e impari cos’è la bellezza. Se non ti piace puoi cedere il libro a un amico, ed eventualmente questo amico lo cederà a un altro amico, e un giorno arriverà nelle mani di qualcuno che lo troverà bello e allora il titolo sarà giusto e il libro sarà bello. Insomma, è davvero così semplice, aveva ragione mia nonna. Se mi guardo intorno mi sembra di vederla. Rompe due uova e dice: “Tesoro mio, la bellezza è nel portafogli di chi guarda. E con un po’ di fortuna, se venderai abbastanza copie, non ne avrai più bisogno.”

Quarta di copertina

A Marianna rapiscono un figlio poche ore dopo il parto. Un anno dopo, consumata da una crisi di nervi, Marianna rapisce un bambino al parco, lo chiama Luca, si trasferisce in un’altra città e finge che sia suo figlio. Il giorno del suo ventesimo compleanno Luca, che è sempre stato dubbioso, fa in segreto un test del DNA per assicurarsi che Marianna sia la sua vera madre. Il test del DNA dà esito positivo. Luca corre da sua madre, le confessa tutto e si scusa per aver dubitato di lei. È solo in quel momento che Marianna si ricorda di un dettaglio: [per sapere quale, bisogna comprare il libro]

Ogni volta che Michele alza le tapparelle sente alzarsi le tapparelle del vicino. Ogni volta che tira lo sciacquone, sente lo sciacquone del vicino.

Non ci eravamo mai visti, ma in qualche modo avevamo sincronizzato la nostra vita. Quando la mia sveglia suonava, sentivo suonare anche la sua.

[…]

A volte lo immaginavo tutto intento a fare qualcosa, per esempio colorare dei disegni in un album – nel mio immaginario il mio vicino era una persona molto semplice -, e mi infastidiva pensare che stesse godendo di quella libertà tanto a lungo, così aprivo la porta d’ingresso e la sbattevo con forza, sicuro che lui preso alla sprovvista avrebbe lasciato immediatamente le matite per andare a sbattere la sua. Altre volte mi sono convinto che avrei potuto fargli scambiare il giorno per la notte, se solo lo avessi desiderato. Sarebbe bastato impostare la mia sveglia alle 23.00 e lui sentendola si sarebbe precipitato a farsi barba e doccia e sarebbe sceso per andare in ufficio, incurante del buio pesto.

[…]

“Quella casa è disabitata da almeno cinque anni” disse l’amministratore.
“No, le dico che ci vive di sicuro qualcuno.”
“È impossibile. Da quando un uomo si è ucciso lì dentro nessuno la vuole.”

E se le storie di Michele e Marianna fossero collegate? (SPOILER: non lo sono)