Negli anni settanta, durante un’importante conferenza mondiale di medicina a Buenos Aires, il professor D. dimostrò che la vita è cancerogena. Con una serie di diapositive poco curate illustrò come, incrociando tutti gli studi degli ultimi trent’anni, non avesse trovato un solo caso di tumore in un uomo che non esisteva. La comunità scientifica prese sottogamba le sue affermazioni, alcuni dissero che era pazzo, la figlia che tanto amava smise persino di parlargli, ma questo non impedì al professor D. di continuare il suo lavoro. Tornato nel suo laboratorio prese in considerazione altre malattie come il diabete o la depressione, e dopo qualche anno di ricerche ininterrotte si rese conto che non soltanto la vita era cancerogena, ma era sempre e fatalmente mortale.

Passeggiando lungo il viale di un’università pose allora una domanda a un suo vecchio amico psicologo, l’unico che gli rivolgesse ancora la parola: “Se la vita porta dolore e malattia, perché gli esseri umani hanno paura di agire? Moriranno comunque, si ammaleranno comunque.” Lo psicologo si prese qualche attimo per pensare, poi rispose che tutti cercano di limitare le possibilità che gli accada qualcosa di brutto. Allora il dottor D. si passò la mano sulla camicia per ripulirla dalla salsa del kebab e trascinò lo psicologo nel suo studio, dove gli mostrò una serie infinita di grafici che dimostravano come in realtà più una persona affrontava di continuo dei rischi moderati e più la sua vita si allungava, la sua salute migliorava, le sue fortune aumentavano.

Il dottor D. e lo psicologo, incuriositi, fecero allora qualche ricerca tra gli studi esistenti, ma non trovarono niente di rilevante. Quindi, quasi per gioco, organizzarono qualche esperimento. Dapprima su alcune cavie da laboratorio, poi su se stessi, infine sui colleghi che, per non minare la credibilità dello psicologo, erano tenuti all’oscuro del loro lavoro.

Le ricerche proseguirono per tre anni, poi per altri cinque, e per altri sette ancora, fino a quando non saltò fuori la risposta che cercavano. La risposta che tutto il mondo cercava, pur non avendo mai fatto la domanda. Telefonarono subito a Buenos Aires, avevano bisogno di uno spazio per presentare le loro scoperte. Da Buenos Aires gli dissero che per quell’anno erano pieni. “Internet!” urlò il professor D., “pubblichiamo tutto su internet!”. L’amico psicologo fece un gran sorriso, alzò di scatto le braccia al cielo e la sua mano toccò due fili scoperti che dovevano alimentare una lampadina. Perse i sensi, cadde e urtò la testa su una bottiglietta di gazzosa lasciata sul pavimento.

Il professor D. entrò nell’ambulanza che accompagnava il suo amico all’ospedale: “Forza,” diceva, “non puoi morire proprio adesso.” Un infermiere che era con loro guardò D. e gli disse: “Professore, cos’è quella protuberanza che ha sul collo?”
Lui tastò la zona e rispose: “Probabilmente un tumore.”

Lo psicologo entrò in coma, il suo cervello ormai era andato. Il professor D. tornò a casa, si sfiorò di nuovo il collo e ripensò a quello che gli avevano detto: “Due mesi di vita, al massimo tre.”
Prese dal laboratorio tutte le sue carte, il computer, i cd, le lettere di rifiuto delle riviste scientifiche, e li ammucchiò nel giardino. Poi gli diede fuoco, sollevò il telefono e compose il numero di sua figlia.