Se tocchi i binari della ferrovia in un punto al sud del paese e un tuo amico li tocca al nord, i vostri pensieri convergeranno per un istante.

(Suo padre)
Elena sentiva di portare sul suo corpicino da ottenne il peso di una vecchia. Faceva i compiti su uno scrittoio bianco in camera sua, da sola, sempre un po’ sudata. Se non capiva quello che stava leggendo allora lo rileggeva, all’infinito, senza aumentare lo sforzo. Elena non studiava come un contadino che ara il terreno, ma come la bestia che tira l’aratro. Operosa e rassegnata, sempre proiettata verso il minuto successivo, per riempire tutto il tempo e tutta la testa, per avere l’impressione di non essere solo un corpo, o di non essere al mondo solo per il corpo.

(Suo fratello)
Era convinta che fissando una patata abbastanza a lungo sarebbe successo qualcosa, ma che questo “a lungo” era talmente lungo che nessuno avrebbe mai potuto scoprirlo. A quattordici anni nella sua camera c’erano quaderni dappertutto, riempiti con una scrittura fitta fitta. A ventidue aveva abbandonato la scrittura e anche parte del pensiero, perché aveva scoperto che la parola aveva i suoi limiti. Cercava di pensare a un limone nella sua interezza, senza pensare alla parola “limone”. Allo stesso modo si rifiutava di chiamare Filippo il suo amico Filippo e, incurante delle lamentele di lui, continuava a scoprirlo e assaggiarlo nei modi che riteneva più efficaci.

(Elena)
A ventidue anni smisi di parlare e in parte anche di pensare. Lasciai l’università e tutti gli amici. Dovetti anche andare via di casa per non far preoccupare i miei genitori, convinti che avessi un esaurimento nervoso o un’altra malattia della testa.
Non posso dire esattamente cosa accadde in quel periodo, perché ho in mente delle immagini molto nitide ma non sempre riesco a risalire alla storia.
Sono abbastanza sicura di aver trascorso del tempo con un senzatetto biondo e molto silenzioso, che chiedeva l’elemosina in silenzio e in silenzio non la riceveva.

(Filippo)
Vivere con Elena significava vivere di nostalgia. Ogni minuto ripensavo sognante al minuto precedente. A volte provavo un profondo senso di nostalgia per il momento stesso che stavamo vivendo o addirittura per quello che stava per arrivare.
Ogni canzone, per quanto brutta, sembrava addolcita dall’esperienza del ricordo romantico e ogni suo movimento era perfetto perché immortale in un dispiegarsi del presente che pareva l’unico possibile, esattamente come non c’erano altre versioni di quello che già era stato.
Litigavamo ed era così che doveva andare, facevamo l’amore ed era così che dovevamo sbagliare o ridere o soffrire. In qualche modo ero completamente arreso a quello che succedeva e per questo anche completamente partecipe.
Poi una mattina mi svegliai e lei non c’era più. Al suo posto, tra il cuscino e la sua guancia, trovai un messaggio: Ogni volta che cado in un pozzo le parole scompaiono. E ogni volta che cado in un pozzo saranno soltanto loro a parlarti di me.